martedì 23 febbraio 2010

Iglorioso bastardo

L'ultimo film di Tarantino, proprio perché dichiara apertamente fin dalle prime battute di portare avanti il punto di vista della chiacchera, non sembrerebbe un film sulla verità. Eppure volenti o nolenti non fa che trattarne in continuazione. In un certo modo si ha la sensazione di essere ancora fermi allo stesso punto di duemila anni fa mentre Pilato è intento a giudicare Gesù. Nel frattempo, però, si è smarrita la via. Della verità non c'è più traccia. Sembrerebbe rimasta solo la vita nuda ottusa e basilare. Così rispetto le narrazioni precedenti, il punto di vista residuale non è più quello sofferente e pur tuttavia regale del presunto messia, né quello scettico di Pilato, né quello interessato del Sinedrio. In fondo, almeno nei primi due c'era ancora la sfida per stabilire cosa fosse la Verità. L'uno proponendosi come tale, l'altro affermando di non saperla. No, questa volta attraverso la m.d.p. Tarantino sembra piuttosto mettere in scena lo sguardo del pubblico presente nella piazza in preda a una frenesia orgiastica e acclamante crucifige! Sempre pronto a voler sbranare la vittima di turno, come al Colosseo o nell'agorà di Atene di fronte a Socrate, o in una piazza parigina in trepida attesa del tonfo della lama sulla testa dei regali di Francia. Così, alla fine, quale sia la particolare posizione assunta dai protagonisti all'interno del film, a vincere è solo lo spettacolo e la spettacolarizzazione del dramma della vita e della verità. È questo l'unico messaggio autentico residuale emergente, la spia accesa che ci avverte di essere arrivati al culmine della Società dello spettacolo come mai era successo prima. E non si vede proprio come se ne possa uscire. A fronte di tale verdetto “non ci resta che piangere” oppure, come fa Tarantino, riderne e goderne il più possibile, provando a pervertire tale gioco magari sgranocchiando popcorn in prima fila. Anche questa può essere una risposta al vuoto dei nostri tempi. Forse la più lucida, la più disperata e nichilistica possibile. Ma è solo questione di punti di vista. Infatti è sufficiente cambiare prospettiva per affermare il contrario. Cioè considerare la spettacolarizzazione dell'orrore come il superamento di tale nichilismo. Se la denuncia in sé, cioè il dire la verità non è servito a nulla finora, allora tanto vale pervertirne il messaggio per goderci su il più possibile sino al parossismo. Almeno sembrerebbe essere questo il destino intrapreso oggigiorno dall'homo democraticus.
All'inizio si è detto che il film parla ancora nonostante tutto della verità anche se dalla parte del pubblico. Ora si può introdurre un ulteriore punto di vista, quello di Giuda. E oggi Tarantino ne è l'interprete più coerente e fedele. Perché la verità messa in scena dal regista oltre che crocifissa è soprattutto tradita, mistificata, traviata, usata. Sembra questo il disegno arcano sottaciuto all'interno del gioco della verità. Come se fosse stata inventata solo per essere rinnegata a favore della menzogna. Tanto più credibile e “vera” tanto più è grossa e spettacolare. Siamo ancora alle Trues lies di Cameron, ma costruite nel modo meno borghese e melenso possibile. Insomma sembra non se ne possa uscire. A ben vedere, tutti, sia coloro che lottano per il male sia per il bene, sono costretti a mentire, e il meglio possibile. Come se alla fine la verità, se può emergere ancora, nonostante tutto, è solo dopo aver passato apocalitticamente attraverso il suo negativo fino in fondo. Bevendo il calice amaro sino all'ultima goccia. Quasi che il male si possa sconfiggere, sempre se sia questo il fine all'interno del film, solo facendosi a sua volta altro male. Per arrivare almeno a poterci lottare alla pari. Pur continuando residualmente a serbare nascosta una piccolissima traccia mnemonica di bene. Questo almeno provando a riassumere in sintesi quanto la tradizione filmica ci aveva abituato a sperare in queste ultime decadi.
Ma torniamo al film per provare a dimostrare quanto detto sin ora. Partiamo dalla fronte. È lì che Pitt scolpisce la svastica. Mentre gli altri protagonisti vi appiccicano la carta per provare a riconoscersi nel personaggio fantastico attribuito dal vicino. La domanda di partenza è:
Chi sono io?
Tale domanda potrebbe essere ulteriormente universalizzata e estesa a tutto il genere umano. Allora diventerebbe:
Chi è l'uomo? Come decidere chi sia e come valutarlo?
Ma ritorniamo alla fronte e all'espressione correlata di andare a “testa alta”. Senza dimenticarci che è quello il punto ideale per sbandierare i propri simboli nei berretti. Comunque, insieme alla schiena è l'unico punto che ci sfugge. Ma allo stesso tempo è ciò che gli altri vedono di noi e il punto su cui viene stampata la nostra identità, vera o finta che sia. Come un marchio indelebile e a vita nel caso di Pitt. Quando si gioca sul serio e si vuole dire chi è l'uomo sopravvissuto che si ha davanti, Apache non ha dubbi. È un nazista e basta e la svastica tatuata ne è il segnale imperituro. Giusto per non sbagliarsi più in futuro e non affossare tutto nel dimenticatoio, magari svestendosi della divisa da nazista per un nuovo camuffamento travisante. Certo non tutti lo sono allo stesso livello. C'è chi è costretto dagli eventi a farsi collaborazionista, perché se no ne andrebbe della propria vita. Ma c'è anche chi lo fa perché ama quel gioco perverso con l'obiettivo narcisistico della notorietà, del successo e dell'autoaffermazione. Comunque a ogni livello si attua un compromesso e un tradimento. Fino a quello più spregiudicato possibile, paragonabile a quello di Giuda, anzi forse ancora più estremo, cioè il tradimento del Fürher, il Dio incarnato del momento. Infatti rispetto al re dei cieli, tutto da provare, qui si è di fronte al vero sovrano momentaneo del mondo. Ma torniamo ancora al gioco della carta sulla fronte, se si prova a definire l'uomo come un re, è però King Kong, Re Kong. Ovvero la scimmia che si crede un re, la scimia similia dei. Come attribuito alla SS. Dopo L'ultimo re di Scozia, il film di Tarantino è l'ulteriore variante dell'incipit di 2001 odissea nello spazio di Kubrick. Solo che ora la denuncia non è più tale in quanto è pervertita in godimento. In questo sembra essere agli antipodi dei suoi predecessori più o meno illustri. Dal momento che tutto può essere trasformato in piacere, compreso lo stesso atto del denunciare che viene così a essere invalidato e annullato. Alla fine, l'importante è l'orgia conseguente in cui tutti godono sadomasochisticamente. Solo questo è importante e residuale. Non sembrerebbe esserci altro. Il finale è da questo punto di vista strepitoso. Infatti, oltre la battaglia perversa per il potere, nel film c'è chi è disposto a sacrificare la propria vita per smascherare o uccidere i nazisti magari perché mossi dal desiderio di vendetta e dal risentimento (Shoshanna e Apache), oppure per degli ideali libertari. In ogni caso tutti agendo nel modo più spettacolare e barbaro possibile. Magari attraverso un'operazione di pulizia chirurgica di precisione eliminando la testa del nemico. Vedi la scena del cinema dato alle fiamme. Oppure agendo diffusamente sul territorio, come Apache, mimando un anticorpo in cerca dell'antigene nazista per fargli lo scalpo. Secondo questa prospettiva i bastardi senza gloria di Tarantino potrebbero essere assimilabili agli eroi protagonisti di Essi vivono di Carpenter. Anche loro intenti in una battaglia senza quartiere grazie alle personali montature per riconoscere il nemico e per non farsi smascherare. Solo che qui a tutti i livelli la mistificazione è esponenzialmente più elevata. Rimane il fatto che, alla fine, chiunque del pubblico viene portato a identificarsi con il vincitore morale, cioè con Apache che scolpisce il suo ultimo capolavoro. Dopo essere stati bistrattati, seviziati dal cinema perverso di Tarantino, in conclusione si gode tutti insieme. Allora, dopo lo scarico della tensione che puntualmente si realizza nel finale, spesso parte l'applauso in sala in quanto ovazione tributata all'imperatore circense di oggi. Questa è una conseguenza del fatto che al termine del tragitto lo spettatore non viene portato dal film e dal regista a svelare cosa ha scritto sulla propria fronte... magari potrebbe essere King Kong oppure avere una svastica cicatrizzata. Continuerebbe a non vederlo perché non c'è nessuno nella realtà che lo potrebbe marcare a fuoco. Non c'è Apache e i suoi bastardi senza gloria a attentare alla sua quotidianità. Così ognuno proseguirebbe a partecipare indististurbato al gioco delle carte e a farsi mettere o a mettersi direttamente l'appellativo di grande uomo, che so Marco Polo e via dicendo, quando invece si è magari semplicemente nazisti o nel migliore dei casi collaborazionisti. Certo non possono essere sullo stesso piano il contadino traditore per non morire rispetto alla decisione volontaria e opportunistica del gerarca nazista. Eppure sembra solo una questione di grado. Tutti lottano per la sopravvivenza, con i mezzi che hanno a disposizione. Certo poi c'è chi esagera e riuscendo a padroneggiare il gioco prova a incrementare a dismisura il proprio tornaconto personale a discapito degli altri.
Nel cinema di Tarantino, la messa in scena dell'orrore non porta a conseguire nessuna coscienza di sé o del massacro quotidiano al quale volenti o nolenti si partecipa. Come per esempio accade in The mouth of madness (tradotto in italiano con Il seme della follia), sempre di Carpenter, grazie alla risata disumana del protagonista intento a rivedere da solo al cinema il filmato della propria esistenza. In Bastardi senza gloria non c'è più nessuna apocalisse personale possibile e alcuno spazio per la riflessività auto o etero indotta. Rimarebbe apparentemente solo il momento perverso della goduria, della masturbazione infinità avente come soggetto il male. Non bastasse il godimento per l'orrore agito nella realtà, ci si beerebbe anche nella ri-visione perversa delle proprie res gestae. Come per il cecchino del film. Per conseguire un ulteriore piacere di secondo grado ottenuto attraverso la riproposizione infinita della realtà, come potrebbe succedere oggi anche attraverso la televisione o con internet. Allora la battaglia fondamentale dello sguardo diventa tra chi combatte l'orrore sia nella realtà che nella finzione anche attraverso un'ecologia delle immagini e chi invece partecipa consenziente all'orgia in tutte le sue forme e i ruoli possibili. In tale scontro, Tarantino, è un bastardo senza gloria, però solo nella finzione. Come se l'unica vocazione possibile del cinema fosse semplicemente quella dell'intrattenimento. In questo senso sembrerebbe più un'“arte” pura e autoreferenziale, totalmente distaccata dalla vita. A fronte di una posizione nichilistica in cui non si intravede invece nessuna soluzione positiva reale, parrebbe alla fine schierarsi dalla parte dell'eccesso del desiderio, intascando i suoi trenta denari. Insomma, direbbe la verità, smascherandola, ma solo per tradirla come Giuda, provando a goderci forse pure perversamente. Riscrivendo allo stesso tempo in chiave trash il finale tragico delle 120 giornate di Pasolini, solo per poter far godere del tradimento e del massacro. Forse questo è il suo modo di arrendersi e di essere collaborazionista verso questa vita. Magari non è nelle sue corde sapersi opporre e allora preferisce piuttosto deporre le resistenze e abbandonarsi arrendevole. Così si darebbe in pasto al pubblico e allo stesso tempo lo utilizzerebbe per i suoi fini perversi. Per godere tutti. Solo nell'orgia dell'orrore sembrerebbe oggi paradossalmente possibile realizzare un accordo ecumenico accettato da quasi tutti. Tranne quel resto minimo di umanità insalvabile. I bastardi ingloriosi reali.
Ma torniamo ancora al gioco delle carte e al duello per la verità o meglio all'agone in cui si stabilisce chi sa mentire meglio grazie agli strumenti della logica e della razionalità. L'unico tribunale in grado di smascherare i mentitori (meno bravi). Il nazista perfetto, l'SS, è in questo senso la sola categoria umana capace di vedersi sulla propria fronte riflessivamente, grazie alle domande giuste fatte agli altri. È quello che sa ricostruire o immaginare meglio la verità di se stesso e dell'altro. Come il cacciatore degli ebrei. Sa andare più in profondità e immedesimarsi nella possibile vittima simulandone i desideri e i pensieri. Ma lo smascheramento non ha alcuna finalità né positiva né autocritica che non sia il distruggere l'altro o chi si oppone al teatro dell'orrore. Per parteciparvi da protagonisti, bisogna essere speciali. Non è sufficiente uccidere una persona ma trecento. Insomma solo chi l'ha fa più grossa può essere portato come esempio e spettacolarizzato e glorificato. Cioè reso ulteriore spettacolo, magari con un film da esempio per tutti.
Ogni confronto alla fine si risolve in un duello di logica. Tutto viene portato all'interno di un ordine prestabilito e di una gerarchia. Ma a decidere tale ordine è solo chi sa mentire e nascondersi meglio sub-ordinanando in questo modo la controparte. E se mentre si partecipa al gioco si viene scoperti e non si decide di sottomettersi e di collaborare, non rimane che lo scontro frontale. In qualche modo tutti sono sempre sotto tiro, però alla fine sopravvive il più forte in tutti gli ambiti. Viceversa chi vuole ribellarsi a tale giogo, come il soldato tedesco arruolato come “bastardo”, può solo disertare e prendere la strada del deserto e della clandestinità.
All'interno di tale scontro, il cinema, la massima espressione della forza dello sguardo e della seduzione come può essere inquadrato? Già l'idea che il cinema sia fondamentalmente un'industria culturale ma ancor prima di intrattenimento non lascia adito a tante possibili risposte. Hollywood si arricchisce facendo godere dell'orrore della vita spettacolarizzandolo e non può non entrare se non nella categoria dei nazisti. Almeno questa potrebbe essere una chiave di lettura della scena di distruzione della sala del cinema con tutti i suoi protagonisti. Anche perché lo spettacolo della verità filtrato attraverso lo schermo sembra non poter far altro che crocifiggerla ulteriormente. La visione spettacolare può solo pervertirla. E chi fa cinema ne è complice. E Tarantino ne è pienamente consapevole. Per questo fa trash. E il suo cinema al massimo è solo trashendentale. Oltre qualsiasi forma di resistenza. In un certo senso è l'avanguardia che prepara la venuta dell'anticristo in quanto si prodiga per abbattere barriere per alimentare e far dilagare il desiderio in tutta la sua onniperversità. Il male, se tale può ancora essere definito, sembrerebbe essere sul punto di vincere, in quanto non ci sarebbe più nessuna opposizione capace di contenerlo. Tale sfida immortale è anche la tematica del cinema di Michael Mann, uscito di recente nelle sale con il lungometraggio Nemico pubblico, rinnovando l'atavica sfida cominciata con Manhunter e poi con Heat-La sfida e via dicendo. Nei suoi film il delirio di onnipotenza e il male conseguente alimentato dalla visione e dall'immaginazione vengono sconfitti dalle forze del bene. Ma tale cinema non è molto realistico, sebbene denunci il vuoto nichilistico comunque presente anche nel dionisiaco orgiastico, svelandone comunque la prospettiva fallimentare. Eppure nella vita a sedurre e a vincere sembrerebbe più essere il male, magari proprio in virtù di un'analisi impropria e di una visione distorta dei fatti. In questo senso Tarantino e il suo eccesso ne sono la testimonianza più credibile. Nella battaglia all'interno delle dinamiche complesse del desiderio in Michael Mann c'è ancora troppo romanticismo e poesia, troppo amore sia nella variante della filia che dell'agape. Così sembrerebbe essere ancora troppo nichilista o troppo poco. Si, in questo Tarantino è portatore di una verità più credibile e realistica. Ma solo perché il tradimento messo in scena è all'ennesima potenza più elevato. Fare spettacolo è tradire la verità. E tanto più la si tradisce, tanto più si fa spettacolo. Mostrare la realtà umana nella sua nudità, l'ecce homo è solo funzionale per il godimento del pubblico, nonostante l'impegno di chi provi a rovesciare tale destino. Anzi in un certo qual modo il vero ecce homo è metalivellarmente quello messo in scena da Tarantino. Alla fine come se ne esce... Da quale parte schierarsi? Io non saprei dirlo al momento. Anche non prendere parte e sospendersi è pur sempre una parte, un ruolo, una maschera da indossare funzionale al gioco della verità e al suo martirio. A quanto pare via d'uscita non ce n'è, o almeno non è stata ancora trovata. O si resiste, denunciando il gioco. Ben sapendo però dell'inutilità del gesto, almeno finora. O se ne partecipa fino in fondo, senza più remore.
Rimane il fatto che quando si arriva a una teoria, cioè a una visione prospettica della vita, della storia, dell'uomo, poi ci sarà un confronto e un possibile scontro. Dove alla fine si dovrà elevare un vincitore. Questa è la regola del gioco della verità. Non se ne esce. Solo chi è più bravo a essere logico o osservatore razionale, allora potrà sperare di vincere, stabilendo la gerarchia di chi sarà agnello e chi leone. Se si finisce nella categoria degli agnelli, si avrà un futuro da collaboratore, altrimenti da dirigente. Comunque nulla è fisso per sempre e c'è in ogni istante la possibilità che a un'altro livello del confronto sia possibile rimettere tutto in discussione, compresi i ruoli finora acquisiti. Infatti il gioco della verità espone a una tassonomia, a una disseminazione e distribuzione incontrovertibile decise ogni volta attraverso il confronto scontro dei valori in campo. Chi accetta tale agone è anche consapevole che dovrà poi seguirne, accettandole, tutte le conseguenze. Sapendo però che la verità non è garanzia di bene ma solo strumento finora nelle mani di coloro che hanno saputo meglio dire la propria personale bugia, con-vincendo. Forse questa è a tutt'oggi la verità più profonda emersa.
Per concludere una sintesi e una speranza residuale quanto folle.
Il cinema di Tarantino tritura tutto per poi darlo in pastura agli spettatori che abboccano come pesci acconsenzienti, già predisposti a tale gioco. Ovviamente da Giuda, perché lui conosce la verità e la dice tutta solo per tradirla perversamente quanto consapevolmente. In questo accettando fino nelle più estreme conseguenze il destino sinora inscritto della verità che è quello di essere mistificata, martoriata e crocefissa. Rimane un'ultima inquietante domanda, assimilabile a quel paradossale dubbio messianico a tutt'oggi però irrisolvibile1. Alla fine da quale parte del tavolo sta Giuda e con lui Tarantino? Sarà poi vero che solo quando il male avrà vinto completamente a questo punto potrà concludersi positivamente l'ultimo scontro finale? L'ultimo grande spettacolo a disposizione per godere veramente fino all'eccesso estremo. Oltre qualsiasi proiezione virtuale solo anticipatoria. Quanto effimera. Come quella messa in scena attraverso il cinema.
1Sholem Gershom, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993. in particolare il capitolo su Shabbat Zwegli.