giovedì 19 agosto 2010

Turista non per caso

Essere turista in un piccolo paese montanaro abruzzese vuol dire appartenere a una categoria precisa di essere umano.
Innanzitutto non esiste sempre.
Va e viene a seconda del periodo.
Lo trovi soprattutto d'estate.
Ma anche a Natale e Pasqua, nei fine settimana soprattutto quando c'è il sole e ci si avvicina alla bella stagione.
Abitualmente il repertorio di azioni a lui associato è abbastanza esiguo. In ogni caso sono tutte riconducibili alla particolare condizione dello stare in vacanza. Ovvero in quello stato di ozio visto come svaccamento o anche come ricerca compulsiva di eventi per l'appunto turistico-culturali. Il tutto dalla mattina alla sera, per un tempo indefinito, di solito un paio di settimane, a volte anche per un mese, più di frequente per una manciata di giorni.
Nel primo caso il turista è propenso a non fare granché.
Può riposarsi a casa, in albergo, sulla spiaggia del lago o in qualunque posto adeguato per parcheggiare il proprio corpo tendente naturalmente alla stasi o al limite a una serie stereotipata di movimenti lenti. Per esempio può muovere un braccio per afferrare un drink o sollevare gli occhiali per mirare con cupidigia sempre le stesse identiche cose.
Comunque di solito va per la maggiore l'opzione di passare ore e ore immobili a crogiolarsi al sole, girandosi di tanto in tanto sopra la superficie d'appoggio occasionale come allo spiedo. Magari sorseggiando lentamente una bevanda fredda o sgranocchiando qualche prodotto tipico.
In ogni caso lo vedi in giro la sera quando si appropinqua alla piazza del luogo prescelto per abbandonarsi stanco in qualche sedia di bar o in una panchina.
Se gli va bene, qualcuno provvede a riempirgli la serata con un concerto, un piano bar, una lotteria o una sagra di paese. In fondo però non è così importante. Tanto per lui sarebbe lo stesso. A contare è lo stare lì a fare niente o quasi. Che so chiacchierare del più e del meno tra una birra e un sorbetto, oppure trascinare a rilento un ipertecnologico passeggino...
A questa figura di turista fondamentalmente inattiva e passiva si oppone il turista curioso e dinamico, a volte fino all'eccesso. Sempre desideroso di conoscere qualsiasi cosa. Quando raggiunge il suo scopo spesso si lascia andare a esclamazioni estasiate del tipo:
Bello...
Oohhh...
O altri mugugni similari.
Per arrivare in tale stato è pronto a spingersi dappertutto senza alcun ritegno.
Nulla deve sottrarsi al suo sguardo.
Ogni luogo va marcato e catalogato attraverso lo scatto di almeno una foto. Magari abbinandovi anche la propria figura per attestare la propria presenza agli amici.
La foto, nella sua staticità cronica, è riuscita a imporsi come supporto ideale per conservare la memoria di quegli eventi occasionali, conferendo loro la categoria dell'eternità.
In ricordo delle generazioni future si potrà attestare: Io c'ero. Anche quando quell'Io materiale si sarà dissolto in un: Egli c'era, e poi in un'entità ancora più astratta e ideale. Una pura virtualità dai connotati spesso impalpabili.
In ogni caso la piazza centrale diviene il punto di contatto delle due diverse categorie di turisti. Il luogo in cui si accordano e provano a convivere pacificamente.
In fondo non sono così dissimili. In quanto incarnano due facce della stessa identica medaglia, quella del lavoratore medio in vacanza con la famiglia al seguito. Anzi quel momento particolare diventa l'occasione sociale per esibire i propri capolavori.
Che so il prodotto di unioni oggi sempre più precarie. Oppure sé stessi dopo estenuanti cure maniacali necessarie per ben apparire. E quando ciò non basta si può sopperire alle presunte mancanze con bigiotteria colorata, magliette con scritte, pantaloni con ricami floreali, qualche tatuaggio e via dicendo.
Se va bene, si può arrivare anche alla conoscenza più approfondita dei propri simili, magari davanti al bancone della gelateria o grazie all'incontro scontro di passeggini occupati da pupi ben vestiti e compostissimi.
A volte galeotto può essere la passeggiata con il cane.
In questo caso lo sforzo da compiere è minimo.
Non sei più tu a dover scegliere.
Fa tutto lui.
Scodinzola, si avvicina o abbaja e ringhia secondo l'intensità dell'odorato, degli ormoni in circolo, del sesso.
L'unico inconveniente è l'essere consegnati in balia del destino e della natura, spesso cieca.
Ma non va sempre male.
Alla fine qualcuno o qualcosa di interessante lo si trova sempre.
Un giorno qualunque d'agosto passò per caso un tipo strano.
Non guardava i monumenti e comprava poco.
Passeggiava con gli altri ma tirava diritto senza cercare scritte storiche o insegne di macellerie ovine o di panificatori artigianali di dolci.
Teneva con sé un piccolo zaino da lui inseparabile.
Dopo aver preso un café al bar popolare, quello di solito frequentato dagli oriundi autoctoni del paese, continuò il suo girovagare.
Non si capiva bene cosa cercasse.
Alla fine trovò anche lui il suo posto.
Una panchina all'ombra sulla via principale tra due auto parcheggiate.
Si tolse lo zaino.
Lo aprì e estrasse una busta trasparente.
Per strada non c'erano più tanti turisti e nemmeno la gente del posto. Si era giunti infatti a l'ora della siesta o della pausa café come preludio per una eventuale pennichella pomeridiana.
In giro c'erano solo pochi fanciulli intenti a giocare con il niente.
Due di essi, lì nei paraggi, per un attimo si fermano incuriositi da quell'evento eccezionale.
Ei ma che fa quello?
Che cosa avrà mai tirato fuori dallo zaino?
Senza farsi notare fanno finta di continuare la passeggiata.
Poi alla prima occasione quella più vicina si volta di scatto e getta un'occhiata veloce.
Troppa è la curiosità per resistere.
Il viso luminoso e un po' sfacciato e lo sguardo tirato fino al limite ottengono il premio tanto cercato.
Dentro la busta trasparente si intravedono dei libri, dei fogli di carta, ma anche una penna verde e un evidenziatore.
Si sono due libri, però di quelli mai visti prima.
Eh no... non si tratta delle solite guide turistiche, né di mappe dettagliate di sentieri montani o di strette viuzze del paese.
Lo strano tipo li prende entrambi.
Comincia a leggerne uno per un po'.
Poi passa velocemente al secondo, aprendolo in mezzo, in una pagina ben precisa, per tornare funambolicamente all'altro.
Di colpo prende della carta bianca e comincia a scrivere quasi senza fermarsi più.
Nel mentre passa lì davanti una giovane ragazza down.
Deve cercare qualcosa in auto.
Supera il tipo senza dire nulla.
Ciao... si sente dire.
Risponde immediatamente... arrivederci... e poi sorride.
Intanto dalla finestra sopra la panchina si sente urlare in dialetto:
Melissa!
Ti chiami Melissa?
No... Melisa con una esse sola.
Dopo aver rovistato a lungo in macchina senza trovare nulla ritorna a casa.
Questa volta è lei a salutare.
Ciao!
Ciao...
Il tempo continua a passare ma quel signore non fa una piega.
Di solito i turisti stazionano lì per un po'. Che so per bere una coca, mangiare un mostacciolo, per consultare le carte da viaggio.
Poi però si alzano e riprendono il cammino.
No, lui invece sta lì quasi immobile, rapito da quei libri come se tutto il resto non esistesse.
Le due fanciulle a braccetto tornano indietro da dove erano venute.
Questa volta senza dire nulla si dirigono decise verso la stessa panchina e si seggono al suo fianco.
Parlano tra loro di altri fanciulli.
A un certo punto alla vicina di quel turista anomalo spunta fuori un cellulare color ciclamino.
Cerca una foto per mostrarla all'amica.
Il ragazzo, sospesa la lettura, dopo aver assistito in silenzio alla scena prova a conoscerle:
Ciao... siete di qui?
Si, siamo di qui.
Non c'è molto da fare, vero?
Già...
I più grandi si trovano di solito ai “giardinetti”.
Ma noi non siamo così grandi...
E tu sei un turista?
Un attimo di pausa prima della risposta, poi:
Beh... forse... ma non solo...
Non del tutto convinta dalla risposta, dopo aver giocato per un po' con la mascherina del cellulare mostrando una notevole abilità, di scatto si alza con la sua amica.
Legate indissolubilmente a braccetto continuano il loro girare spensierato in cerca di situazioni curiose.
Non prima di aver salutato con un sorriso.

sabato 14 agosto 2010

Maria tra gli avatar

Una ennesima nuova generazione ha deciso di dare una svolta.
Vuole cambiare il mondo dandosi da fare.
Stanchi delle parorole vuote e delle astrazioni inconsistenti si affidano alla forza poietica della creatività.
Però provando a essere meno invasivi e più rispettosi dell'alterità, qualunque essa sia.
Novelli Vulcano per temperamento, ma aggraziati nell'estetica, forgiano la materia grezza con la saldatrice e il flessibile solo per imprimerle una forma ludica. Espressione di una nuova dimensione estetica spesso votata all'ozio e all'inutile. Anche per affermare un valore puro al fare tecnico, liberato da quei vincoli lavorativi oppressivi capaci solo di inaridire quella vena creativa all'interno di oggetti feticistici.
È questo il modo di manifestare il loro livello potenziale in procinto di eslodere in mille nuove forme di vita post tutto.
Un po' sembrano mimare quelle figure stravaganti presenti in natura, come un pavone o un uccello coloratissimo intento in un difficilissimo corteggiamento. Così soltanto si spiegano i movimenti ricercatissimi dei fissati o il ciondolare sospesi in aria su biciclette altissime.
Pratiche del tutto incomprensibili se le si giudica a partire da ferrei parametri utilitaristici.
Invece è solo sforzo gratuito tramutato in sfarzo.
Quel lato misteriosamente estetico e riflessivo di una natura arcana.
Si divertono a assemblare carri bizzarri o bici a due piani lente e scomodissime. A patto però di affermare senza alcun compromesso una logica eco-sostenibile all'interno di ampi spazi transizionali.
A volte sono regressivi.
Spesso anche nostalgici.
All'apparenza sembra un ritorno ai minimi termini, all'oggetto povero spesso quasi informale.
Ma la loro ricerca di forme primitive e grezze è solo il punto di lancio per ridefinire nuove coordinate, nuove progettualità inaudite.
Allora riciclare assolve alla funzione di smontare a pezzi minimi il vecchio, per poi rimpiegarli nella costruzione di nuove entità complesse. Spesso facendo emergere nuove funzionalità.
In ogni caso tale decostruzione essenzialistica diventa il negativo dialettico per una nuova sintesi potenziale capace di centrifugare tutto senza scarti, anzi a partire da essi.
Con questi nuovi mezzi a due o più ruote provano a differenziarsi dalla massa informe.
Con essi si gettano nel mondo per nuove spiazzanti avventure.
E non è poi importante se da Milano a Parma ci si impieghi tre giorni.
Nella nuova era globalizzata post industriale, post lavorativa il tempo non si misura più secondo la prestazione più efficace o economica. A contare sono altri parametri virati ludicamente.
A sostenere tale progettualità c'è ora una nuova umanità.
L'ultima sul mercato della vita.
Giovani androgeni slanciati, dai corpi scultorei quanto sinuosi.
Vanno seminudi.
Hanno superfici spesso segnate da tatuaggi esoterici studiatissimmi, en pendant con l'abbigliamento.
Ma soprattutto esprimono una carica erotica nuova.
Sfacciata e aggraziata, adulta e infantile allo stesso tempo.
Che sia questa la generazione degli avatar incarnati?
Non sono avidi.
Piuttosto sono generosi e solidali con il prossimo.
La sincerità è per loro un valore.
Le loro parole, le loro emozioni esprimono senza filtri ciò che vivono.
Anche in questo provano a essere scoperti.
Senza troppe maschere reverenziali.
Forse sono troppo acuti o troppo ingenui, non l'ho ancora capito bene.
In ogni caso sono spesso laureati. Sebbene non disdegnino di sporcarsi le mani magari usando un trapano o un cacciavite.
Sono loro l'ultima avaguangardia di privilegiati a cui è toccato in sorte il destino dell'umanità?
Sicuramente sono più friendly e meno eccessivi rispetto i loro predecessori.
Sono attentissimi alla salvaguardia della natura al punto da farsene paladini.
Non disdegnano di essere vegetariani spesso fino al punto di convertirsi al veganesimo.
Tutto ciò pur di costruire un mondo nuovo più sostenibile.
Come potrebbero non piacere, nonostante tutto...

La svolta poietica

Di recente la ciclofficina ha operato una svolta epocale.
Una delle tante succedute in tutti questi anni.
Sebbene la più profonda e radicale.
I nuovi adepti hanno operato una sterzata decisa verso un'idea più funzionale e pratica. Si vuole in questo modo potenziare quei valori poietico-creativi necessari per raggiungere inediti obiettivi non solo artistici ma anche politico-sociali. Infatti, grazie alla sperimentazione di nuove alchimie tra progettualità e fare materiale si spera di far emergere da quel fondo originario indistinto, motore sotterraneo della vita, ulteriori forme esistenziali. Anche per ridefinire i precedenti rapporti tra potenza e atto
I primi a farne i conti sono stati i piccioni lì accasatisi.
Il nuovo ordine ha imposto un più stretto regime igienico.
E ora non c'è più spazio per loro.
A meno di nuove abitudini più consone al nuovo spirito.
Tale svolta è stata possibile anche grazie al connubio tra tre generazioni distinte.
Oltre i nuovi, c'è Francesco, l'ideatore del carretto simbolo in passato della ciclofficina e Franco, un pensionato torinese. Un uomo alto e magro, del tutto pacifico.
Franco è di poche parole.
Si esprime soprattutto attraverso il fare.
Il resto non conta.
Incarna a pieno la generazione post bellica, mossa dall'impellenza di ricostruire il mondo dopo l'ennesima distruzione.
Fornito di martello e cacciavite per lui nulla è impossibile.
Tali indiscutibili abilità non hanno messo molto tempo a contagiare tutti. In particolare nell'ottica di reinvestirle nella costruzione di complessi carri stravaganti.
Venuto meno il precedente ordine, in questa situazione di passaggio tutti hanno provato a portare acqua al proprio mulino. Prima che il nuovo corso si definisse con più chiarezza.
Così Francesco mosso dalla passione per i carri ha comprato all'insaputa di tutti un trapano verticale di precisione.
All'inizio si era rimasti un po' perplessi.
Però, man mano si è cominciato a apprezzarne le qualità, anche quest'acquisto oneroso ha assunto un senso preciso all'interno del nuovo spirito progettuale.
In ogni caso, la nuova ventata razionalizzatrice ha avuto l'effetto di ridisegnare in modo più funzionale la disposizione delle bici e del materiale precedentemente ammassato qua e là.
Ora tutto è più facile.
Ogni cosa sta nel posto giusto.
Franco e Michele si sono addirittura messi all'opera per appendere le bici al soffitto e fare spazio.
Una cosa inaudita e impensabile solo fino a qualche mese prima.
Eppure in tale naturale trasformazione uno strumento su tutti è stato motivo di discussione e di infiniti ripensamenti.
Il fatidico centraraggi. Un supporto su cui fissare la ruota per tirare i raggi con assoluta precisione.
Come tutti sanno coloro che mettono mano sulle bici, se ne può tranquillamente fare a meno.
Leonardo, la voce più autorevole della ciclofficina, non capiva il senso dell'operazione.
Ma non serve.
Ripeteva quando interpellato
Basta prendere un normale tiraraggi, un filo di ferro robusto fissato leggermente di fianco il cerchione e il gioco è fatto.
Eppure l'idea ha colpito la fantasia di tutti quanti per giorni.
Allora che si fa?
Si compra o no?
Sono cento euro e non è poco.
Per Gaz era un elemento essenziale.
Ma non solo per lui.
Alla fine, dopo alcuni giorni di ripensamenti, è venuto a galla il valore simbolico portato da quello strumento.
Messo lì in bella vista doveva dare il senso del nuovo corso a tutti i frequentatori nuovi e vecchi della ciclofficina. Una sorta di totem capace di esprimere a chiare lettere lo scarto con il recente passato.
Da oggi la ciclofficina non è più quella di prima.
Basta con il caos e la sporcizia.
Se si era imposto come strumento immaginario era perché con esso si voleva indicare l'eventualità di un ulteriore ordine possibile. Una nuova perfezione raggiungibile. La quadratura del cerchio lì a portata di mano.
Quella deviazione standard da tutto incarnata in precedenza, sintomo di una insufficienza esistenziale radicale, era stata definitivamente riassorbita in una nuova sintesi, potente e allo stesso tempo inquietante. Anche perché non ancora del tutto manifesta nelle sue conseguenze.
Un nuovo mondo era pronto per il varo, nonostante le tante incertezze da sfatare. Tutto ciò, in nome di nuovi valori estetico-funzionali e di ulteriori equilibri relazionali.
Per la prima volta la ciclofficina dell'Ex-m, da sempre una meteora indecifrabile all'interno dell'universo delle ciclofficine italiane, assumeva una connotazione più definita.
Di certo più efficace e pragmatica.
Al prezzo però di una normalizzazione tutto sommato ben accetta ai più. In quanto ora era più identificabile e riconoscibile.
Però, al di là degli indiscutibili vantaggi, qualcosa di indecifrabile e di sottile era andato perduto da quando di punto in bianco tutto era cambiato in modo irreversibile.
In pochi avevano notato le differenze.
Come se non ci fosse mai stato nulla di diverso prima.
Nessuno si era lamentato o aveva nutrito nostalgie particolari per il passato.
In fondo a contare più di tutto era forse solo la possibilità di poter portare ancora a riparare la propria bici.
E questo tanto bastava.

Una questione di freni

Elisabetta aveva ora la sua prima fissa.
A Bologna non c'erano tante ragazze a poterla esibire.
Di certo se non fosse stata con Gaz, l'idea di montare una fissa forse non l'avrebbe neanche sfiorata.
Infatti, non è certo il mezzo adatto almeno per chi vuole andare in giro con le classiche gonne lunghe colorate. Sicuramente bellissime ma poco funzionali se si vuole essere un'amazzone su di una bicicletta.
Comunque, grazie al duro e preciso lavoro di assemblaggio di Gaz, alla fine si era trovata anche lei a sedere sopra la sella sofisticata di una vecchia bici con la canna color ruggine trasformata in fissa. Ovvero senza freni e con il pignone fisso, cioè continuamente in tiro come nelle biciclette da pista.
Di solito per evitare danni collaterali, i meno fissati montano preventivamente al centro del manubrio un freno per riuscire a fermarsi in tempo in caso d'emergenza. Però, secondo Gaz, la linea pulitissima ne risulta indubbiamente compromessa.
Ma non è tutto.
Per imparare a utilizzarla senza remore, l'uso del freno può limitare l'affinamento di quella sensibilità necessaria per riuscire a guidarla nel modo più appropriato.
Ma sotto sotto il disappunto di Gaz celava qualcosa di più di più profondo.
A infastidirlo era la possibilità di compromettere l'essenza fondamentale della fissa. Ovvero quello spirito minimalista spinto fino all'osso, quella vocazione spartana allo stesso tempo aristocratica, capace di fare la differenza rispetto a un utilizzo solo banale della bici.
No, quel freno era intollerabile.
Un segno di decadenza verso quel modo di esistere ottuso e superficiale, tanto criticato.
A essere messa in discussione era tutto l'apparato utopico sottaciuto. Il senso implicito di un'ulteriore esistenza alternativa possibile messo in gioco in tutti questi anni di confronto serrato e curioso.
In fondo lo stare in supplesse al semaforo o schitare per fermarsi era per lui solo un modo per prendere le distanze da questo mondo consumistico irrispettoso nei confronti di tutte quelle esistenze desiderose di innalzarsi invece verso un apice inaudito, seppur sostenibile. Perché no, a partire da quello estetico. Anzi innanzitutto estetico, ben prima di qualsiosi altro piano del discorso. L'essere aggraziato come sinonimo di predestinazione. In quanto simbolo puro capace di esprimere un nuovo stile di vita in bilico tra una rigorosa disiplina ascetica e un disinvolto approccio materialistico senza dubbio edonista, aperto a cogliere i piaceri sofisticati della vita.
Pur nel rispetto della semplicità.
E senza eccedere in una ricerca perversa e onnipervasiva.
Provando invece a rispettare sé stessi, gli altri e la natura.
Non senza manifestare allo stesso tempo un evidente distacco aristocratico e un certo disagio verso tutti quegli esseri normali, troppo normali, così appagati nelle loro banali idiosincrasie di tutti i giorni.

P.s.
Alla fine, dopo mesi di discussioni e di rinvii, Gaz ha dovuto recedere.
Il freno fa ora bella mostra sulla bicicletta fissa della sua ragazza.
Così va la vita.

venerdì 13 agosto 2010

“La conversazione” nell'era digitale

Chloé venne un giorno d'inverno in ciclofficina.
Doveva aggiustare la sua bici olandese bianca recuperata nei paraggi di qualche cassonetto.
Il particolare accento esibito lasciava facilmente intuire l'origine.
Dopo un po' che si pistolava insieme attorno ai freni ci disse che era una giovane erasmus venuta dalla Francia per studiare musica al D.A.M.S.
A un certo punto, prima di partire si ferma.
I suoi occhi marroni si illuminano come se avesse scoperto chissà cosa.
Ci guardiamo intorno perplessi senza essere colpiti da nulla di particolare.
Boh...
Poi ci chiede gentilmente...
Posso fare delle registrazioni?
Ci guardiamo ancor più stupiti.
?! Certo...
Fai pure...
Allora estrae dal suo zainetto un coso rettangolare con delle cuffie professionali. Poi volgendosi circolarmente lo punta in tutte le direzioni, fermandosi verso quelle sorgenti di suono più interessanti. Tale operazione compiuta nel più rigoroso silenzio durò per un po' di tempo.
Incantati dal coso ci bloccammo tutti in contemplazione.
Per non disturbare, la respirazione si fece più lenta e silenziosa.
Scoprimmo alla fine che si trattatava di un sofisticato registratore panoramico di fabbricazione tedesca in grado di cogliere fedelmente i rumori contestuali. Per svolgere al meglio tale funzione aveva due microfoni convergenti a v, necessari per ottenere un effetto stereo, oltre a mille altre funzioni di difficile comprensione.
La digitalizzazione del mondo aveva trovato una nuova interprete. Mossa dalla stessa innocente curiosità di un fanciullo voleva dare voce a tutta quella realtà anonima ancora sconosciuta. Nella speranza di stanare in quelle fascie di herz liminari per la nostra soglia d'udito qualcosa d'imprevisto. Per donare un volto al rumore di fondo. Per individuare nuove soglie possibili d'esistenza ai confini con il paranormale.

mercoledì 4 agosto 2010

Nero vivo

Non essere centrato.
Stazionare fuori luogo.
Sentirsi inopportuno.
Senza riflesso.
Senza eco.
Si parla la stessa lingua.
Si frequentano i medesimi luoghi.
Ma sono solo segni vuoti.
Contenitori senza pareti.
Superfici liscie
di fogli increspati prima di essere gettati.
Fette di realtà inconsistenti
infrante da lamette affilate.
Sotto è solo nero pesto
adimensionale, indecifrabile,
senza superficie o profondità,
assenza amorfa.
Eppure, il vuoto si ricolma ogni volta.
Un nuovo fiat viene concepito.
Prima di essere abortito nel volgere di un istante.
Così ciclicamente.
Senza trovare pace.
Ricacciato a forza
in quel nero scabroso tutto avvolgente e divorante.
Fucina di possibilità impossibili.