mercoledì 19 dicembre 2012

Ecce follia

Svelare la follia.
Nella terra di nessuno.
Di un essere ramingo senza freni.
Anarchico.
Lo spirito vitale nudo a raglio.
Anticristo liberato.
Per fare strage di segni resistenti.
Fino al grado zero di significazione.
Per una disponibilità nuova, totale.
Dinamismo puro.
Trasformazione alchemica.
A zonzo tra le cose inanimate.
Per ridestarle.
Un libro sul tavolo.
Un rotolo di cartigienica finito.
Possibile foglio infinito di scrittura.
Per lasciare segni delebili.
Il marchio di fra.
Della sua disposizione creativa.
Del saper mettere insieme parole all'apparenza inconciliabili.
Per sanare distanze.
Anche solo per un barlume.
Momento di fragilità estrema.
Lo svelare la debolezza fondamentale della propria genialità.
Quello spirito infantile giocherellone.
Un po' burbero.
Irrequieto.
Desideroso di prendersi gioco di tutto.
Di annientare qualsiasi valore per trasformarlo.
Così.
Per puro divertimento.
Innalzando quegli oggetti segnati verso soglie inaudite.
Un momento di vertigine.
Poi il crollo.
Il ritorno in sé.
La mattina.
Per vedersi di nuovo riflessi.
Sdoppiati in una voce altra.
Quando rivestiti di vergogna ci si volta indietro.
Volenterosi di giustificarsi.
Ma non ce n'era bisogno.
Bella comunque la telefonata.
La disponibilità.
Nella fragilità la potenza.
Nell'infondatezza assoluta la possibilità estrema.
Giocata ogni volta al limite.
Nella linea di confine.
Un niente per essere solo folli o semplicemente normali.
Lì, in quella terra di mezzo dove si decide da sempre le sorti dell'umanità.
Dove si mostra l'uomo nudo.
Da dove si generano i mostri.
Gli incubi da sopportare sul groppone.
Basta però saperli contenere.
Orchestrandoli sapientemente.
Per una sana convivenza.
Non senza una predisponente incoscienza infantile.
Senza una follia pura.

venerdì 14 dicembre 2012

Dall'alto di una guglia

Là sotto chilometri e chilometri di superficie cementata. Una distesa impressionante. La gente viveva lì. A ritmo di metropoli.
Da quella posizione sembravano tanti soldatini in movimento lungo i viali alberati. Le macchine in mezzo la strada, i pedoni sui marciapiedi, dritti e impettiti. Solo il rosso e il verde dei semafori a fermare la corsa. Di colpo. Nessuno a ribellarsi al grande compositore nascosto. Per tutti, normale agire quella parte. Ogni giorno, ogni notte.
Ma non era facile per niente.
Tutto era stato irrimediabilmente segnato, formato, irregimentato. Per chilometri. Fino all'orizzonte.
Anche le piante non sfuggivano a tale regola.
I rami spogli erano stati potati rigorosamente.
Snelli, leggeri si protendevano verso il cielo.
Come colonne gotiche intrecciavano nervose volte a sesto acuto.
Difficile trattenere un sentimento di oppressione.
Tra quella rete fitta verso il cielo filtrava a malapena la luce.
Non a sufficienza per elevarsi.
La vera salvezza non era di questo mondo.
Ma addavenire.
Per i burattini laggiù rimaneva solo da amministrare l'inferno. Non senza tentare di innalzarsi con superbia verso quella luce. Alla fine però un gelo cristallino pervadeva ogni cosa, i muri, le persone fissandone per un istante la tanta dinamicità. Un girare a vuoto paradimatico di una umanità sotto sotto rassegnata e sofferente.
Unica chance ributtarsi nella calca a capo fitto.
Continuare a perdersi in tanto movimento fino all'ebbrezza.
Al punto di illudersi.
Ma non bastava.
In ogni superficie era inciso indelebile quell'urlo originario.
Sebbene di esso rimanesse solo l'eco sordo.
A testimoniarlo i muscoli ancora tesi fino allo spasmo.
Sepolto nella memoria più profonda segnava da sempre le membra della città. Nonostante i ripetuti tentativi di affossarlo entro una quotidianità all'apparenza pacificata. Ma la misura era stata superata da un pezzo. Al limite restava ancora da definire nuove forme di vita postumane tutte da inventare. In nome di un'eccentricità filtrata da un rigore esasperato. Esaltato dalla pulizia delle linee, da un vestire serio colorato di nero opaco fino al grigio antracite.
Eppure la materia così strenuamente fissata riusciva ancora a trovare delle fessure dove poter esplodere anarchica nonostante le strette ferree maglie tutt'avvolgenti.
Charlotte quella mattina si era svegliata presto.
A ritmo di rock and roll.
Lo stesso di sempre però aggiornato ai tempi.
Davanti un nuovo giorno.
Una vitalità prorompente si era impossessata del suo giovane corpo.
Non riusciva a stare ferma.
Il sorriso sul volto pieno di luce.
Le scarpe alte di pelle morbida ai piedi.
Via giù per le scale a chiocciola.
Quattro piani da bruciare prima di toccare terra.
Tre gradini per volta.
Rapida come un fantasma.
Una sfida al tempo.
Per farlo implodere.
Fino a superare ogni barriera.
Tra un salto e l'altro parole assemblate in musica.
Oltre il portone la città davanti.
Un sole intenso a scolpire ogni cosa fin nei minimi dettagli in tanto freddo, giusto per ricordare l'autunno inoltrato.
Non un attimo di pausa.
Dimenando il corpo come fosse percorso da una scossa vitale inesauribile, macinava passi uno dietro l'altro.
Protesa in avanti.
Verso la meta del momento.
Una velocità tale da non distinguere più le gambe.
Neanche fosse una modella futurista.
Lo stesso incedere devastante di un pezzo rock inarrestabile.
Passo dopo passo.
Senza tregua.
Oltre ogni limite appena raggiunto.
Un viaggio da paura fino all'inevitabile arresto.
Non prima di aver bruciato tutto in pochi istanti memorabili.
Un altro varo andato.
Dopo solo l'incedere inerziale della quotidianità.
Appena sufficiente per arrivare a sera.
Prima di coricarsi ancora e ricaricare le pile atomiche.

domenica 9 dicembre 2012

Altissima povertà

Un grosso fraintendimento.
Non è povero chi pensa alla ricchezza.
Chi lo è malgrado tutto.
Contro la sua volontà di possedere qualcosa, se stesso, una posizione, un riconoscimento.
Al massimo è un non ricco.
E non è la stessa cosa.
La povertà è un ideale aristocratico.
Una forma di vita acquisibile solo dopo tanta disciplina.
Sapendo vedere in faccia la morte.
La propria morte.
Con coraggio.
Senza mascherarsi più.
Spogliandosi di tutto.
Senza più mondi.
Senza illusioni.
Con il timer attivavato.
Un contdown.
Un resto ancora da vivere.
Da usare nel migliore dei modi.
All'occorrenza.
La vita nuda è questo residuo.
Quanto rimane dopo tutto.
Qualcosa da cui ripartire.
Così, per gioco.
Senza più patemi d'animo.
Pieni di vita.
Fino a traboccare.
Volontà di potenza.
Meglio, di potenziale.
Allo stato puro.
Non essere più.
Non ente.
Niente.

lunedì 3 dicembre 2012

Merda d'autore e l'errore di Artaud

L'unica opera.
Vivere.
Esistere e basta.
Al di là di ogni rappresentazione.
Solo quando si insinua la differenza, cioè quando ci si sente scissi dentro, ci si osserva vivere o meglio non più vivere.
Allora si è già morti.
L'opera prima, la vita, non è più prima.
Era prima.
Allora va rigettata, buttata fuori alla prima occasione.
In quanto scarto, resto inutile, ostacolo alla nuova vita, alla nuova carne.
L'escremento proiettato fuori.
Il pleroma compiuto di un fallimento.
Il peso da lasciare.
Solo quando ce se ne libera nuova vita sgorgherà.
L'opera trattenuta l'ostacolo.
Non vale rigirarci sù, farsi una ragione, dare un senso all'accaduto, ripetere la scena di quanto è stato all'infinito né curarne i particolari, la forma nella speranza di rincorrerla ancora.
Buona la prima.
Il resto un martirio, un mancare infinito a sé stessi.
Meglio piuttosto sospendersi, evacuare quei pensieri in forma stringente così da facilitarne l'evacuazione.
L'opera conseguente lo scarto inutile, il cadavere fetido marciscente mascherato di bellezza.
Offerta luciferina di niente, di quanto non è più, forse non è mai stato. Sacrificio dato in memoria di quanto fu. Dono crocifiggente per spettatori voyeur deleganti la vita all'infinito non senza compiacimento. Mosche svolazzanti di merda in merda per annusare al massimo l'odore della morte scambiato per spirito vitale.
L'esecuzione sul posto.
Dell'opera espulsa.
L'atto necessario per tornare a vivere.
Per non farla vivere oltre.
Per non cadere in tale fraintendimento.
Solo allora ci si libererà dalle catene.
Via da ogni finzione, da ogni ripetizione, da ogni compito, da ogni feticcio spacciato per reale.
Simulacro astratto.
Spirito fantasma esangue.
Corpo anoressico prosciugato fino all'osso.
La verità paradigmatica di tale scambio simbolico.
Per conservare l'illusione di continuare a vivere.
Per procastinare ab limitum la morte.
Via tutto.
Fuori tutto.
Fare la festa.
Esecuzione di massa.
Sterminio di maschere vuote incapaci di sorreggersi da sole.
Forse dopo qualcosa succederà.
Nessuno più a testimoniarlo.

mercoledì 28 novembre 2012

Stella della notte

Fino a quel momento non aveva avuto buoni pensieri.
Era da solo in biblioteca davanti un testo ostico.
Il tempo che ci resta.
Un titolo senza dubbio messianico.
Per quella sera non aveva ancora sentito nessuno.
La luna era sul punto di compiersi.
Da lì a poco sarebbe scomparsa lentamente fino a confondersi del tutto con la notte.
Viveva una fase critica di destrutturazione. Come se anche lui dopo aver toccato il culmine stesse sul punto di sgretolarsi in tanti pezzettini.
In quei frangenti a rompersi non erano solo i suoi pensieri ma anche le cose in uso a lui vicine.
Le ruote della bici, il computer, il forno...
Quel giorno era toccato alla cerniera della tuta gialla da corsa.
Ormai non si stupiva più.
Quello era solo l'inizio di una morte lenta prima di trasfigurarsi in altro.
Non voleva stare da solo.
In sala non aveva incontrato nessuno di sua conoscenza. Tra una pagina e l'altra percepiva tutta la sua estraneità tra quei studenti disciplinati e silenziosi.
Non voleva assecondare quel trand, andare a casa a vivere quel vuoto immenso. Come un abbandonarsi incondizionato. Non era nelle sue corde. Piuttosto sarebbe stato meglio non esserci, al limite dormire fino al termine di tutto.
Da un lato tesseva soluzioni, dall'altro le disfaceva con altrettanta velocità. Tanto quanto sarebbe accaduto da lì a poco sarebbe stato altro. Oramai lo sapeva per esperienza. Doveva solo affidarsi ciecamente. Come il solito. Un salto nel buio. Poi qualcosa sarebbe successo.
Eppure ci aveva provato fino all'ultimo.
Si era invitato a cena da una sua amica.
Con lei si sentiva bene.
Ma niente da fare.
Era già impegnata.
Saggio sarebbe stato fermarsi, sospendere i pensieri.
Piuttosto valeva più muoversi alla cieca.
Trascinati dal corpo così come capita.
Lasciar fare agli eveni.
Quella sera passò pure all'elastico.
Chiuso.
Giocata pure l'ultima spiaggia.
Dopo c'era solo la strada dritta verso casa.
Sconsolato si stava per avviare con la bici al suo fianco. Non del tutto domo qualcosa lo tratteneva ancora, si frapponeva tra lui e il suo cammino.
Poi una voce.
Ei...
Nella strada oscura una figura nera nascosta sullo sfondo nero senza luce. Era stato sufficiente un passo in avanti per smarcarsi da tanto buio e far emergere in contrasto la silouette.
Un'apparizione inattesa.
Per certi versi sorprendente.
Quasi ci fosse stata una porta segreta.
Non la riconobbe subito.
Anche perché quella sera fra tutte le persone possibili sembrava la meno probabile.
In passato sarebbe corso da lei senza pensarci su.
Non mi riconosci?
Con un tono di voce piatto, senza tradire particolari emozioni.
Bastò poco per darle un volto, un corpo.
Lucy.
L'amica di sempre.
L'odi et amo più lacerante di quei tempi.
Apertura e chiusura assolute, senza mediazioni.
Vicina e lontana quanto una meteora fuori orbita.
Fu spiazzato.
Come di copione.
Oltre ogni aspettativa.
La soluzione la più ovvia e immediata.
Allo stesso tempo la più difficile.
Il tempo di sfiorarsi le guance e arriva il suo compagno.
Passarono insieme la serata al pratello.
Là trovarono pure un'altra sbandata.
Si unì a loro.
Mangiarono di gusto una piadina.
Poi si incamminarono verso casa.
La serata non verrà certo ricordata come tra le più memorabili.
I toni rimasero bassi, pacati.
Però era quanto ci voleva.
Il massimo per quella notte.









sabato 24 novembre 2012

Fare la festa
















Oggi è giorno di festa.
All'Xm si celebra la crazy bikes' night.
Concerto noise con strumento base la bicicletta.
A seguire gli immancabili dj. Il loro compito accompagnare la notte fino al compimento per lasciare posto al nuovo giorno. Provando a ingannare il tempo per un pò. Arrestandolo quanto più possibile nella terra del tra.
La serata dovrebbe cominciare alle dieci.
A mezzanotte non c'è ancora nessuno.
Arriverà qualcuno?
Per il momento ci si guarda negli occhi in silenzio aspettando si compia ancora il miracolo. L'esodo di massa di tanti giovani. Manco fosse nato il messia. Pronti in adorazione verso lo stregone di turno in grado di compiere la magia. Far muovere i loro corpi incantandoli a suon di musica. Come marionette stordite da tale potenza bassa. Un colpo ben assestato alle viscere tale da scuotere la kundalini addormentata.
Sul palco sopraelevato gli orchestratori di turno.
Quello il luogo del sacrificio.
Quando ci si consegnerà fino all'ultima goccia in pasto al popolo dei gaudenti spensierati.
Momento di esaltazione estrema di discesa agli inferi allo stesso tempo.
Per rinascere ancora chissà come.
Difficile fare previsioni.
Vale più abbandonarsi incondizionatamente senza remore.
Anche perchè li sopra si è da soli, nudi con sé stessi.
Tutto il resto è oltre avvolto dalle tenebre.
Si odono solo le voci sommesse.
Vai...
Siii...
Così...
Noooo.
Dai o...
Il gioco di luci annebbia tutto.
Meglio non alzare lo sguardo per non essere accecati.
La cassa spia, quella di ritorno per il musicista spara una musica distorta. 
Irriconoscibile.
Dissociati da tutto si va avanti alla cieca.
Qualcosa laggiù succederà.
Il burattinaio dietro le quinte muove i fili ma non vede le marionette. Autismo puro. Solipsismo all'ennesima potenza.
Unica finestra disponibile il monitor del computer.
Piegati all'inverosimile su se stessi, con lo sguardo fisso su quella superficie piatta si prova a articolare un mondo effimero.
Il tempo di crearlo per vederlo scomparire all'istante. Dopo di lui non resterà traccia. Tutto finirà lì. Quando si spegnerà il computer. La morte lo stesso donarsi. Apparire solo per scomparire subito.
Mesi e mesi di ricerca, di prove a casa consumati in un baleno. 
È giunto il tempo di svuotarsi di tutto. 
Di spogliarsi fino all'osso.
Alla fine ci si sente prosciugati, nudi, bisognosi di una nuova copertura.
Meglio se una veste di gloria.
Fondamentale il primo impatto con il pubblico.
I primi commenti.
Da lì dipende l'esito del giudizio finale.
Inferno o paradiso?
Ai posteri l'ardua sentenza.
Eppure anche quando va bene non basta.
Quella sensazione di vuoto soffocante rimane.
Difficile la ricomposizione.
Come mettere insieme quanto vissuto sul palco con quanto incarnato dai presenti giù di sotto.
Una separazione all'apparenza irricomponibile.
Due piani trascendenti al massimo tangenziali in quel punto presente.
La vita.
Ognuno presa a modo suo.
Difficile poi la loro articolazione solo a posteriori.
A cose fatte.
Rimane una latenza di fondo tra l'agito e l'effetto.
Rivivere immaginando non è la stessa cosa.
Un gettarsi ogni volta di spalle nel vuoto.
Ci sarà qualcuno a sostenerti, a contenerti?
Ma poi...
Chi te l'ha fatto fare?