sabato 30 giugno 2012

Detto-fatto


Detto-fatto
La ciclofficina viveva una delle crisi periodiche.
A innestarla la calura estiva, la voglia di evasione.
I ciclofficinari erano quasi del tutto scomparsi.
A reggere l'urto rimaneva la solita ciclofficina migrante.
Da sempre in prima linea.
Mai stanca di sporcarsi le mani.
Senza di lei i battenti sarebbero stati già chiusi.
Una latitanza così però non era mai accaduta.
Una frase nella newsletter dedicata alla ciclofficina per attestare l'esserci ancora, magari sproloquiando parole vacue. Un segno di esistenza nonostante tutto. Qualcuno a rispondere.
Almeno fino a adesso.
Da un po' neanche più questo.
Come parlare con il muro o inviare messaggi a un'altra dimensione.
Più facile entrare in contatto con i fantasmi, i propri spiriti.
Tra i pochi ancora presenti l'accoppiata marco & marco.
Gaz-zen. Improbabile, improponibile eppure possibile.
Erano sopravvissuti a tante crisi, si erano scontrati più volte.
Però erano ancora lì.
Sebbene stanchi e sfiduciati.
Quel giorno c'era la cena migranti della scuola SIM.
Oltre gli abituali frequentatori della ciclofficina molte persone erano accorse all'Xm.
Immancabile il gruppo di antropologia.
Da tempo nella testa di Gaz si era attivata la volontà di agire politicamente. Però sul serio. Basta le chiacchere vuote. Si voleva porre rimedio alla cronica frattura fra le parole e la vita reale, tra il dire e il fare imputabile a un certo linguaggio denotativo-constatativo spesso inefficace, alla fine conservatore. Più in linea con lo spirito pratico della ciclofficina si voleva riportare le parole su di un piano performativo. Per rinsaldare il patto smarrito tra detto-fatto. La parola non più come immagine vicaria di qualcosa, al limite regola vuota impositiva per contenere la vita nuda da essa separatasi. Meglio da utilizzare come movente per recuperare un certo valore generativo, creatore smarritosi da tempo. Una sorta di nuova alleanza vitale. Per un ulteriore fiat pregno di sudore, di sangue vivo capace di irrorare di nuovo i sentieri della vita.
Da un pò di tempo la pista ciclabile in via del chiù era stata sbarrata con un fittone di cemento armato lungo sei metri. A fronte della rottura delle barriere per non cadere nel canale si era risposto nel peggiore dei modi.
Chiudendo la via.
Un gesto carico di significati anche simbolici.
Segno di un potere conservatore senza alcun buon senso capace solo di mettere ostacoli, di rendere più difficile il flusso di persone, la comunicazione tra le parti. A tutto svantaggio poi di quel popolo in bicicletta da tempo bistrattato da una amministrazione comunale sensibile solo alle problematiche del traffico automobilistico. Al di là della mera propaganza politica preelettorale.
Quella sera finita la cena si trovarono tutti sotto la tettoia dell'Xm.
Non so cosa c'era nell'aria.
Era bastato uno sguardo fra i presenti per accendere quella strana luce negli occhi.
Andiamo!
Ora.
Tutti insieme.
È il momento di agire.
Senza perdersi in ulteriori chiacchere erano già lì a progettare come spostare il fittone.
Tra le soluzioni più fantasiose c'erà di scioglierlo con l'acido, oppure fissarlo intensamente. Qualcuno più pratico propose di prendere un crick e dei pali di metallo per alzarlo e poi farlo scorrere di lato. Così da aprire un varco.
L'idea piacque.
Dopo essersi procurati l'occorrente, legati i pali sotto la canna della bici, come facevano un tempo i soldati al fronte con il proprio fucile, partirono tutti insieme.
Un gruppo variegato.
Tra gli altri c'era pure una giovane francese dal nome impronunciabile, nowluenne, capitata da parigi lì per caso.
Presi dall'entusiasmo si diressero tutti verso la pista ciclabile.
Per la prima volta si era passati a un piano operativo senza comunicati stampa, riunioni, fiumi di parole solitamente inutili.
Mascherati dal buio, con i fanali spenti per non essere visti arrivarono alla meta prefissa.
Davanti la prima barriera.
Una lunga catena a serrare il passaggio.
Con una chiave inglese fu aperta.
E via.
Tutti dentro la pista non più ciclabile nuovamente ciclabile.
In alcuni punti il buio era così pesto da risucchiarsi la strada.
Alla fine si arrivò al fatidico fittone in cemento armato. Uno sbarramento prepotente. Più adatto a fermare i carri armati o al limite i camion in autostrada. Spropositato, osceno.
Quella sera ci provarono in tutti modi.
Niente da fare.
Impossibile andare oltre i principi della fisica.
Al massimo riuscirono a farlo dondolare un pò.
Inutilmente.
Ma non si persero d'animo.
Sarebbero tornati.
Una promessa.
Prima però valutarono il peso, gli strumenti necessari per essere più preparati la prossima volta.
A contare per ora rimaneva il gesto puro.
La volontà di aver provato a fare qualcosa.
Un segno nuovo dei tempi da non sottovalutare.

domenica 24 giugno 2012

Sconnesso






















 
Un muro tremolante avvolgente.
Oltre un mondo increspato prova a farsi spazio.
Nessun compositore a orchestrare i suoni.
Parole smembrate, sminuzzate, sincopate si contendono la scena. Si sovrappongono rincorrendosi senza rispetto.
Risultato una sequela atonale bassa. Metallica come i suoni di un vecchio ordinatore elettronico danneggiato.
La bici è libera di disegnare traiettorie strambe.
Di ondeggiare paurosamente tra l'alto muro di fianco e le barriere in cemento armato dalla parte opposta.
Un corpo legnoso fatica a andare avanti, a contrastare quel movimento ondulatorio.
Lungo la pista ciclabile altri ciclisti provano a abbozzare traiettorie più efficaci. Difficile decifrare quelle manovre stravaganti. Preoccupati reclamano il passaggio. Alla fine ci si sfiora pericolosamente. Una mossa laterale nervosa lascia spazio. Di ritorno voci lunghe monche di sillabe vibranti. Irriconoscibili. Suoni non segnati, indecifrabili penetrano a fatica la corazza.
Risuona l'eco distorto allucinato.
Esperienza psichedelica allo stato puro.
Nessuna volontà di capire.
I suoni vengono campionati, mixati così come sono.
Al grado zero di significazione.
Senza senso.
Afasia dislessica noise.
Puro divertimento autistico.
Fascinazione per melodie sghembe riarticolate con le mascelle aperte, la bocca a O, U.
Monosillabi minimali sospesi, sovrapposti, allungati, ripetuti, scalati.
Nessuna cura della fonte.
Può essere una macchina radente, le perplessità di un ciclista, gli echi lontani di una gru, il fischio stridente dei freni, la sirena di un treno.
L'umidità dell'aria è tale da appiccicarsi alle singole vocali come una sordina, un gel avvolgente di melassa al punto da farle precipitare in basso sull'asfalto. Dopo un estenuante sfregolio sulla superficie ruvida fino a consumarsi del tutto abbandonano ogni pretesa di significazione.





sabato 23 giugno 2012

Gelo


Come capita non lo so.
Eppure succede periodicamente.
Quando arriva il deserto consulto gli astri, la posizione della luna, il suo ciclo per cercare un accordo, una spiegazione.
Spesso trovo una coincidenza.
Ma tanto cosa vale.
Rimane lo sprofondare non appena la vita si è concessa in tutta la sua ingenuità, il suo splendore. Con il sorriso di una bambina desiderosa di crescere, di superarsi ogni volta.
Si resta spiazzati tanta la potenza e la facilità degli accadimenti.
Tutto sembra possibile.
Niente si frappone.
Sei sulla cresta dell'onda.
La pienezza vitale ti ricolma i polmoni fino a saturarli.
Ti senti esplodere.
Con gli occhi lucidi.
Posseduto.
Felice.
Non stai fermo un minuto.
Davanti un mondo lì pronto a stregarti, a farti godere fino a toglierti il respiro.
Lo sai già.
Non durerà.
L'indomani tutta un'altra musica.
Via gli scenari del giorno prima.
Il palco rimane vuoto.
Dismesse le maschere si rimane nudi.
Avvolti dall'indifferenza.
Sottratti da tutto.
Evanescenti come il vento.
Al massimo puoi riverberare tra le fessure l'urlo dentro.
Come un fantasma senza pace.
Tutto intorno si sottrae.
Per una settimana ogni contatto viene meno.
Dopo essere stati arsi dalla luce del giorno fino a bruciare, il gelo umido della notte ti penetra dentro fino alle ossa. Come una lama avvolgente.
Vorresti scomparire.
Insopportabile la vita.
Mediti solo come abbandonarla.
Senza fantasia.
Una coazione infinita.
Sempre la stessa scena.
Agita in continuazione.
Il sollievo di sapere di potersene andare.
Una chance in più.
L'ultimo estremo atto di libertà.
Smetti di cercare le persone.
Tanto non servirebbe.
La frattura col mondo è totale.
Insanabile.
Fermo davanti al computer.
Aspettando chissà cosa.
Un segnale vitale.
Un innesto per un nuovo codice esistenziale meno spietato.
Intanto pensi come arrestare questo trend.
Quale parola magica in grado di attivare nuove energie, relazioni, fiat.
Nulla funziona.
Rimane solo l'attesa spasmodica, snervante.
Per quanto ancora.
Presto!
Intanto getto bottiglie con un messaggio dentro.
Poche le speranze.

domenica 17 giugno 2012

Emilia anno zero


Berlino assediata dall'esercito sovietico.
Più nessuno a ostacolarlo.
C'è solo l'attesa della fine.
L'ultimo assalto.
Non si sa quando.
In ogni caso presto.
Che fare nel frattempo?
Nessuna speranza di rompere l'accerchiamento.
Rimane da vivere la quotidianità come nulla fosse.
Sostenuti dalla sola ironia.
Il sorriso a denti stretti come arma davanti lo spettacolo della vita senza più veli. Un istante prima della fine.
L'ecce vita a memoria futura dei sopravvissuti.
In prima fila a sgranocchiare popcorn.
Certo lontani echi i bombardamenti, gli spari, le urla. Eppure chi ha vissuto di recente il terremoto le cose non sono poi molto differenti.
La violenza della natura al posto della follia umana. Pronta a colonizzare il futuro imminente con la stessa enfasi di una prima donna.
Un altra scossa ancora.
L'annuncio degli esperti.
Senza poter prevedere quando né il luogo.
Lì dove è stato o un po' più in là.
Si ma quanto più in là.
Si vive alla giornata provando a fare finta non sia successo, non succederà nulla.
Sebbene il pensiero sotto sotto è lì a rimuginare impotente.
Difficile addormentarsi subito.
Si trattiene il respiro per allenarsi a parare il colpo basso.
Le molle del letto vacillano un poco.
L'attenzione va a mille.
Tornano alla memoria le sensazioni delle scosse passate.
Niente.
Solo una leggera vibrazione.
Il battito del proprio cuore.
Ci si tranquillizza un po'.
Si prova a rilassarsi.
Vicino al letto i pantaloni, le scarpe, il sacco a pelo, una borraccia d'acqua. 
Non si sa mai.

Nada surfing

In piazza verdi c'è nada.
Un mito di tante generazioni.
Fine anni novanta l'incontro con ferretti, il rock indie emiliano. L'ennesima trasformazione di chi ha vissuto in prima persona il vento del sessantotto con il freddo dentro in cerca di un amore disperato. 
Dopo il successo ha provato a non fossilizzarzi. 
Si è circondata di giovani musicisti per aggiornare il sound. Ovviamene rock. 
Ma non basta.
Quaranta minuti del nuovo repertorio.
La piazza è stracolma.
Sotto il palco generazioni lontane mescolate insieme.
Tutte lì ad aspettare il grande momento.
Qualcuno canta i nuovi pezzi.
Non sono in molti.
Una domanda ricorrente fa il giro della piazza.
Un passaparola snervante.
Una tensione palpabile pronta a esplodere.
Quando i vecchi pezzi?
Lei sul palco lo sa.
Troppo grande la fama per essere messa da parte.
Il prezzo del successo.
Il lato tragico.
Inutile ribellarsi al proprio destino.
Resta solo di abbandonarsi docile nelle sue braccia.
Uno sguardo verso i musicisti.
Un cenno di assenso.
Così sia.
Ancora una volta pronta per il grande sacrificio.
L'ennesima immolazione orgiastica offerta in memoria di tutti.
Bastano poche note.
Il trigger scatta.
Sotto il palco si scatena la bolgia.
Un boato di urla si eleva.
Tutti a cantare a squarciagola quei motivi memorabili.
Gli stessi ballati nelle feste trash accanto a cicciolina e tozzi, tra le madonne di un tempo e quelle nuove.
Pop porno.
Tutti a braccia alzate, a dimenare i corpi in preda a follia orgiastica. Pronti a profanare e a pervertire indistintamente ogni cosa in vista del puro piacere.
Ecco consumato il grande sacrificio.
Sul volto di nada un sorriso mesto.
La consapevolezza di non poterci fare nulla.
Vai con ma che freddo fa, amore disperato.
Uno per uno si aprono i sigilli dell'apocalisse.
Il mondo è ora in balia del grande seduttore.
In piazza c'è spazio solo per la grande abbuffata.
Il pasto il corpo squarciato in mille pezzi di nada.
Tutti si saziano a volontà.
Lo spettacolo potrebbe finire lì.
Anzi no.
Il bis.
Nada prova a ricomporsi, a risorgere.
Ma che importa oramai.
Gli stomachi sono sazi.
I liquidi sparsi ovunque.
Il resto non conta.
Un supplemento inutile quanto insignificante.