giovedì 5 dicembre 2013

Nuovi mondi all'orizzonte

Il giorno prima aveva suonato all'indue. Quattro ore a mixare il meglio per lui della scena tecno elettronica in circolazione. Il luogo non proprio quello giusto. Le casse piccole impossibilitate a inondare lo spazio circostante di frequenze basse intorno ai duecento quattrocento hertz. Quelle diritte al basso ventre. Una vibrazione lenta, appiccicosa a attraversarti il corpo come un fluido viscoso. Un sound innovativo messo in sordina. Anche perché il martedì è giorno di riposo. Vietato disturbare i vicini. Alla fine, trovato il volume giusto, aveva dato il meglio di sé. Pochi a averlo notato, tutti intenti a parlare con il bicchiere in mano, tra un sorso e l'altro. Sebbene con i corpi mossi a ritmo, le gambe agitate, i fianchi ondeggianti. Indifferenti come se non esistesse. Solo un ragazzo sdraiato sul divano aveva l'orecchio attento. Dopo un po' con il pollice alto commenta: buona musica. Il tempo di finire la frase, un mixaggio ancora, e già se ne va.  La sera a casa la sensazione di una tristezza infinita. L'ennesima goccia in un vaso già colmo. Complice anche la luna nuova da poco tornata a inabissarsi nel buio oscuro. Difficile resistere a quell'energia magnetica per non esserne influenzati. La voglia solo di piangere. Nessuno a ascoltare nel silenzio della notte se non gli spettri della casa, gli astri lontani. Unica porta sul mondo il computer. Un messaggio lanciato come una bottiglia sull'oceano. Da qualche parte il segnale arriva. Qualche internauta insonne è pronto a accoglierlo. No Bros! Così paolo risponde. Come dire non ti abbattere, forza e coraggio. Courage !!! La stessa parola usata da quelli della chroniquothèque. La rivista virtuale di musica tecno, libri, film... La più affine come gusti a quanto suonato la sera prima. La stessa con la quale scambiare le novità elettro noise di giornata. Anche loro sensibili a quel messaggio urlato in silenzio. Una sorpresa inaspettata. Quell'immenso mondo inconsistente, fuori dallo spazio quotidiano aveva risposto a suo modo. La mattina presto shiatsu da fulvia. Arrivato tardi per digerire la lunga notte passata.
Basta.
Oggi vado a caso.
Ti faccio un trattamento invasivo.
Sperimentiamo.
Sul momento nulla.
Poi uscito di casa, saltato sulla bici, un gesto imprevisto. Il piede a scivolare oltre il pedale. La perdita di equilibrio. Il tentativo di opporsi alla gravità. Nulla da fare. Rimane solo da gestire la caduta, evitare il peggio. Di lato piombo a terra di botto. Limitati i danni. Disarcionato dalla bici come saulo da cavallo.
E che il giorno fosse speciale a ricordarlo la telefonata della mamma. Il suo compleanno atteso a torto l'indomani. Ti ho fatto una torta, quando passi a prenderla? Appena possibile, grazie. Il suo modo esclusivo di scambiare affetto. 
Qualcosa quel giorno si era attivato. Nuove energie smosse a caso pronte a far apparire sulla scena della vita un mondo ancora tutto da scrivere. O meglio da tenere gelosamente nel profondo per non sciup[...]

venerdì 29 novembre 2013

Arte del tamburo sciamanico

Aveva confermato la propria presenza su FB.
Ripa bianca il luogo.
Il trentuno settembre la data.
Altro non sapeva.
La mattina in bici da corsa si era diretto da quelle parti.
Da poco si era trasferito in campagna. Vicino alla guzzana. Una salita nota ai ciclisti della zona, non lontano dalla casa delle noci sonanti di fabrizio, una micro comunità spesso riconducibile alla sola figura del suo ispiratore. Specie nei momenti più duri, come l'inverno, quando senza luce, gas, acqua il vivere diventava proibitivo.
A risuonare dentro di lui la parola ripa bianca.
Dapprima andò nell'oasi ecologica sul fiume con quel nome. Il regno dell'airone cinerino, di tante altre specie animali fluviali.
Da lì era stato mandato nella via ripa bianca in un agriturismo omonimo.
Ma niente da fare.
Supportato dai mezzi tecnici degli amici a casa alla fine aveva recuperato il cellulare dell'organizzatrice.
Una telefonata per scoprire di essere distante solo una manciata di metri dalla meta.
Superato il cancello della casa colonica adibito a centro di meditazione, vide non c'era ancora nessuno. Nonostante l'appuntamento fosse per le dieci e trenta e avesse sforato di una decina di minuti buoni.
Come lui un'altra ragazza si trovava a zonzo per la campagna in cerca del luogo dell'appuntamento. Guidata da aghni alla fine era arrivata anche lei.
Ad attenderli un sociologo milanese esperto in counseling da tempo convertito allo sciamanesimo andino. Luigi, età quarantotto anni, capelli un po' lunghi, barba brizzolata, lineamenti snelli, vestito alla buona, maglietta in cotone chiaro, pantaloni fino al ginocchio, sandali. Viveva in una comunità a grondona dalle parti di alessandria. Là si trovavano a ritmo del candario astronimico per capanne sudatorie, ricerca di visione e via dicendo. Una delle sue specialità era l'arte di costruire il tamburo sciamanico. Una passione mutuata in tanti anni al punto da farne anche una professione. Lui musicista provetto al punto da collaborare come consulente per alcune ditte importatrici di chitarre. Certo tutta un'altra cosa rispetto al tamburo sciamanico.
Arrivare a avere un tamburo è un cammino complesso.
La logica di trovarlo già fatto, di poterlo comprare non funziona. È necessario risuonare proficuamente con tutte le forze cosmiche prima di arrivare a possedere la pelle di una capra, il legno necessario per la cassa dal diametro di quaranta centimentri. Perché non si tratta di materiale e basta ma di energia liberata pronta a essere investita in un nuovo progetto vitale. Per questo bisogna essere riconoscenti verso la natura per aver concesso tali oggetti, la capra, il legno per il dono della vita. Tutto partecipa di tutto. Niente è solo quanto appare. Dietro si nasconde un progetto occulto più grande. Basta metterlo alla luce, acconsentirne, diventarne un docile strumento operativo. Allora forze magiche si attivano, nuovi mondi, possibilità si realizzano dal nulla. 
Prima di cominciare il rito luigi aveva già predisposto il campo energetico dove contenerlo. Quattro pali piantati a terra secondo l'orientamento dei segni cardinali, una pietra di quarzo bianca al centro. A est il bastone giallo per indicare il sorgere della luce dal cielo, a sud il rosso, il luogo dove predomina l'elemento di fuoco, poi il nero a ovest dove si occulta il sole ed inizia la notte, il bianco a nord a significare le alte vette coperte di neve, la saggezza, il servizio. Ogni punto a indicare una tappa della vita. Per un totale di cinquantadue anni prima di tornare al punto di partenza per cominciare un nuovo ciclo. 
Definito il luogo ora era il momento di comunicare con potenza l'intento, ovvero le motivazioni di ciascuno per poter dirigere sapientemente le energie attivate dal rito. Essere illuminati vuol dire avere un intento chiaro, limpido. Solo se c'è questa lucidità intenzionale qualcosa accade. Spesso non basta pensarle. Più importante sentirle con il cuore. Prima però un'offerta alla natura per propiziare il rito secondo una strana logica dello scambio. Basta poco. A contare è più il gesto, l'intento. Ecco allora tre foglie d'alloro prese da un cespuglio lì nelle vicinanze donate alle forze spirituali agenti. Poi una volta seppellite ecco il momento di esprimere i propri desideri. 
Ora si è pronti per cominciare la costruzione del tamburo. 
Per i primitivi tutto era più difficile.
Bisognava prima cacciare la prede, scuoiarla, conciare la pelle, radere con una lama i peli della superficie. Poi occorreva pensare al legno. Trovare la pianta giusta solitamente una betulla, tagliarla per lungo per farne un listello di legno elastico pieghevole.
Oggi grazie a luigi è tutto più semplice.
La pelle e la base circolare in legno le porta lui già belle e pronte. Ai partecipanti spetta solo l'assemblaggio. Ovvero tagliare la pelle per farne una superficie rotonda, i lacci per tirarla. Poi stenderla sul tamburo passare i lacci in pelle tra i buchi laterali fino a tenderli al punto giusto. Certo, niente di trascendentale. Ma se non si è abbastanza motivati il prodotto finito difficilmente acquista un'anima. Alla fine a contare è più l'intenzione. Solo con tanto amore, dedizione puoi avere un tamburo bello, ben costruito, soprattutto efficace, con una personalità specifica. Perché non va mai dimenticato di stare manipolando non solo degli oggetti inerti, ma le energie potenti da essi supportate. Per questo i singoli materiali non sono scelti a caso ma secondo la propria sensibilità. Importante allora riconoscerli, toccandoli a occhi chiusi per farsi contagiare, sedurre. Ecco allora una pelle scura ruvida, maschia. Poi una chiara con delle venature. La senti più sottile, delicata, dal tocco feminile. Lo stesso vale per il legno. Senti le nervature, la consistenza. 
A ognuno il suo.
Seguendo diligentemente le indicazioni di luigi, alla fine tutti riescono a portare a termine l'impresa di costruire il proprio tamburo sciamanico. 
Ora è il momento di consacrarlo alle forze cosmiche per iniziarlo ai suoi futuri compiti oltre a generare un legame profondo con chi l'ha costruito. Un legame quasi di sangue. Indissolubile dal momento in cui si supera la soglia dal profano al sacro grazie al rito d'iniziazione. 
Con l'incenso fumante acceso, la penna nera alla mano di una specie volatile andina si comincia. Luigi dirige la cerimonia presentando i due soggetti come in un matrimonio. Dopo la presentazione la dichiarazione degli intenti comuni. Ovvero poter richiamare gli spiriti insieme, saper curare magicamente e via dicendo. Nel frattempo il possessore del tamburo dirige il fumo con la piuma verso il tamburo quasi volesse animarlo. Tutto ripetendolo quattro volte secondo le direzioni cardinali.
Alla fine col tamburo ancora fresco legato dietro la schiena via a cavallo della bicicletta verso la montagna, là dove il sole tramonta ogni giorno. Non prima di aver salutato tutti con affetto e riconoscenza.

un intento chiaro

Oggi siamo stati a trovare fabrizio.
Alias le noci sonanti.
Stava tagliando la legna con la sega su un trespolo a mano.
Come il solito ci ha accolti ben volentieri senza mai smettere di spezzare i bastoni secchi.
Un'illuminazione.
Finalmente ho capito cosa significa vivere in campagna. Staccati da quasi tutto, da quasi tutti.
È lui stesso a dirlo.
Caro mio non è semplice stare qua se vuoi arrivare alla autoproduzione. Un conto è vivere in campagna con una pensione, un'altra arrivare all'autosufficienza.
Limpido e chiaro.
In un baleno mi rendo conto di non aver mai usato seriamente un'ascia, una sega, di poter contare su di una mano quante volte ho acceso un fuoco.
Altro che momenti di depressione, di noia, di sospensione, d'inedia... patologie borghesi, di chi vive in città. Qua non c'è tempo per ste stronzate. Ogni istante è occupato in qualche faccenda. E sempre con il sorriso in bocca. Nessuno ti obbliga a niente. Fai solo quanto pensi sia giusto.
Allora da segnare sul taccuino della prossima spesa.
Comprare una buona sega da legno, dei cunei, un'ascia ben affilata. Ah anche una falcetta per tagliare l'erba.
Fanculo la motosega, il falciaerba.
E stiamo a vedere.
E se tra un anno avrò cambiato idea.
Beh almeno non puntate il ditino. Posso sempre dire di averci provato.
Intanto i topi li abbiamo al momento debellati. 
Certo, nel peggiore dei modi.
Eliminandoli con il veleno.
Un'altra soluzione meno drastica va trovata.
Sebbene la natura davanti a me sia di una chiarezza sconcetante.
Prima di arrivare nella spianata in cemento in fondo la via di casa in mezzo alla vallata, un falco volava basso appesantito dalla grossa preda stretta tra gli artigli. Impaurito dalla mia presenza l'ha lasciata andare per fuggire veloce.
Vado a vedere il malloppo.
Un grosso cucciolo dalle penne nere.
È ancora vivo.
In silenzio tenta di dimenarsi.
Ma riesce si e no a spostarsi di una manciata di centrimetri tra l'erba.
Stremato si ferma.
In attesa del colpo finale.
Il suo destino sembra irrimedialmente segnato.
Lo guardo per qualche secondo.
Poi giro le spalle e tiro avanti verso la meta prefissata.

Ancora giù

Come da un po' di giorni succede.
Sveglia presto.
Sei e trenta.
Quasi un orologio.
Il sole non è ancora visibile offuscato dalle nubi all'orizzonte.
Però c'è tanta luce a filtrare dalle finestre con gli stipiti aperti.
Un pensiero fisso appena aperti gli occhi.
Come portare su la legna segata su per il costone ripido alto più di cinquanta metri.
Ieri la svolta.
In una ferramenta storica trovata la sega giusta. La lama di un metro, l'altezza di ventotto centimetri. Esageratamente basso il costo sei euro trenta. Nessuno le vuole più. Quasi a prezzo da regalo. Messa in spalla a mo' di arco l'ho portata in bici a torre. In mente i cavalieri di una volta sopra il loro fedele destriero.
Un'immagine inusuale per i presenti.
Il tempo di macinare a tutta l'ultimo chilometro e mezzo di irta salita fino a casa per contagiare fra.
Giù verso il canale.
Subito.
Giusto una paja rollata da fra e si è già in strada con la sega a tracolla. Di corsa lungo il sentiero imbrecciato fino alla casa diroccata, poi da lì verso le pendici della collina appena falciata dalla mietitrebbia per arrivare fino al limite camminabile.
Da lì appena visibile in basso il fosso asciutto nascosto da una fitta vegetazione, dai cespugli di pungitopo, edera, rami secchi. 
Prendiamo il sentiero appena segnato a terra.
Spinti dalla gravità arriviamo in fondo in un baleno con la terra fin dentro le scarpe.
Individuata la prima preda un lungo ramo secco.
A turno lo facciamo a pezzi.
Otto lunghi tronchi spessi una ventina di centimentri.
Proviamo a sollevarne uno in spalla e a incamminarci.
Difficile procedere avanti anche perché la terra è friabile e scivolare è la cosa più naturale di questo mondo. Con non poco sforzo riesco si e no a percorrere metà del tragitto. Poi sfinito abbandono il legno nel primo punto piano a disposizione.
Bisogna trovare un'altra soluzione. 
Forse delle corde andrebbero bene.
Con questi pensieri come un film a doppia velocità metto su l'acqua per il mathé ovvero the verde più mathè. Due litri possono bastare per arrivare a sera. Forse una slitta potrebbe essere la chiave di svolta. La stessa vista in tanti film western con gli indiani a cavallo negli spostamenti nel deserto o sulle montagne rocciose. So dove trovare le lunghe assi per costruire l'ossatura. Vicino la casa diroccata è stata deposta la legna della marchesa. Da un po' ne pilucchiamo piccole quantità. 
Non mi sono sbagliato.
Trovo almeno sei tronchi lunghi.
Messi in spalla li porto a casa.
Ne trovo due della stessa lunghezza abbastanza robusti.
Sono loro l'ossatura principale.
Dovranno essere abbastanza forti da resistere al peso di almeno tre quattro pezzi pesanti. Gli stessi segati ieri sera lì a attenderci nel letto del fiume.
Lo scopo scendere fin lì con la slitta appresso. Poi legarne una piccola quantita per provare a risalire.
Dopo aver legato ai due assi base quattro segmenti orizzontali con lo spago, la slitta è belle e pronta. Senza indugi mi dirigo diritto verso la meta. Con alle mani stretti i due lunghi bastoni. Lasciando una sottile scia lungo la strada arrivo a destinazione. 
Svolgo alla perfezione tutti i passaggi prima solo pensati.
È il momento della verità.
Su con tre rami legati stretti agli assi strascicanti per terra.
Niente da fare.
Troppo scosceso il suolo per non risultare impraticabile.
Con tutte le energie dsponibili riesco comunque a guadagnare lo stesso punto del giorno prima.
Mi fermo, sciolgo i nodi, libero la legna.
Una piccola catasta è pronta per essere portata fino in cima.
Urge un'altra soluzione.
Forse ha ragione fra.
Le corde sembrerebbero essere la soluzione migliore.
Svuotato di tutto torno a casa.
La maglietta è impregnata di sudore.
I capelli bagnati come se li avessi appena lavati.
Ora è possibile concentrarsi sulla colazione.

Il turbamento della gelosia

Di punto in bianco la giornata assume una nuova luce oscura. Tutto quanto fin lì vissuto con gioia si trasforma. È bastato un nome, il ricordo di una situzione per accendere emozioni spiacevoli poco controllabili, per togliere naturalità a un corpo fino a quel momento in armonia con quanto intorno.
Come passato sotto l'amido il volto si tira fino a non rispondere più. Lo sguardo si fa lucido, fisso, le mascelle si contraggono, lo stomaco diventa una corda tesa. Le immagini passate prendono il posto della realtà fuori. Chiuso in un mondo artificiale, in balia di pregiudizi limitati, in sentenze deliranti provo a gestire la nuova situazione. A non lasciarle prendere troppo il sopravvento, a non farla trasparire. Ma è già troppo tardi. I neuroni a specchio dell'altro hanno percepito tutto. Basta seguire lo scrutare degli occhi di chi ti sta davanti, le sue labbra serrate come riflesso delle tue.
I pensieri si fanno evanescenti. 
Un vuoto peso si fa strada sopra emozioni spensierate.
C'è solo da arrivare a sera.
Quando questa macchina infernale prima o poi si spegnerà per lasciare il posto a un sonno tutto purificante nelle acque di lethe. Ma fino a allora c'è da amministrare al meglio questo corpo legnoso teso come una molla nervosa.
Oggi c'è l'aperitivo vegano al T.N.T.
La giornata è trascorsa sotto il segno del sole con una temperatura primaverile. Ma le nubi all'orizzonte non lasciano presagire nulla di buono.
A rispondere alla chiamata dell'evento sono in pochi. Sempre più difficile interpretare i desideri degli autoctoni.
Siamo alle solite.
La città è deserta, l'unico incontro interessante è boicottato.
Città di merda.
Esprimo tutta la mia solidarietà agli organizzatori, al loro coraggio. Come gettare perle ai porci.
Che la serata sia di quelle strane lo intuisco dal suo andamento convulso, poco decifrabile. 
Ad ancona suona bemydelay, alias marcella da bologna. Un amica del giro elastico. Senza pensarci su accetto il passaggio offertomi da matteo il vegano. Con me al seguito alec e vale. Ale è un amico, di più un fratello conosciuto nella ciclofficina locale. 
In quattro prendiamo il largo avvolti nel buio. Solo il sibilo del motore e dei pneumatici sull'asfalto rompono il silenzio della notte. In un baleno siamo giù. Movida anconetana a noi.
Poche le persone in giro.
In ogni caso c'è più vita.
L'aria è tersa, in odore di inverno nonostante il caldo.
Il concerto è già al terzo pezzo.
Senza fiatare ci sediamo a terra.
Uno sguardo intorno.
I soliti volti.
Calbu, carlo, laura, cristiana, più qualche altro del luogo.
A attirare l'attenzione un tipo strano. Ha i capelli corti azzurrini, la maglia bianca a maniche corte attillata, una grossa pancia, gli occhi segnati dal mascara.
Sta in disparte.
A un certo punto si attiva.
Con le braccia alte ondeggia sinuosamente il proprio corpo a ritmo di musica.
Quasi in trance.
Poi all'improvviso si ferma.
Appena usciti dal concerto mi affianca.
Vuoi un autoritratto?
Perché no?
Lo seguo.
Fino a un tavolino.
Sopra tanti pennarelli colorati, una matita nera, un bloc notes.
Per cinque euro un disegno.
Non ce li ho.
Senza arrestare la sua azione mi dice.
Fatteli prestare da un amico.
Poi di seguito.
Vuoi stare con me?
Sono già impegnato.
Capisco.
Cinque euro me li dai?
Non ce li ho.
Non è un disegnatore eccelso ma sa cogliere in pochi tratti quegli aspetti caratteristici del mio volto.
Mi riconosco in quegli occhi scuri lucidi, la finestra verso questo mondo.
Come vivi, gli domando.
Ho una pensione.
Quanti anni hai?
Gli stessi dei miei.
Quanto vale la tua pensione?
Duecentosessanta euro.
Cavolo vive con meno.
Dopo pochi segni con i pennarelli mi liquida.
Il disegno è finito.
Cinque euro e te lo do.
Lo saluto.
Ho ottenuto quanto volevo.
Interagirci per un po'.
Alla prox.
La serata si trascina ancora a lungo.
Tra situazioni già viste.
Sebbene una luce strana le tiri a nuovo.
Come fosse la prima volta.
Carlo e laura si sono offerti di portarmi a casa a torre 58.
Complice una leggera deviazione dal loro percorso.
Finalmente.
La speranza di uccidere presto questa giornata entro mura domestiche.
Prima di partire un saluto caloroso con marcella. Come due profughi. Un po' di familiarità in tanto deserto. 
Un abbraccio e via in macchina.
E che la giornata non sia quella giusta lo avverti subito.
A pochi chilometri da casa un indecisione sul percorso da parte del guidatore.
Un tentennamento fatale al passaggio contemporaneo sull'altra corsia di una macchina dei carabienieri.
Come un anticorpo sensibile capta immediatamente l'indecisione. Un'inversione di marcia rapida e sono già sotto il nostro culo con i lampeggianti accesi. Senza fiatare carlo mette la freccia. Accostiamo di lato mentre ripete: hanno visto l'indecisone. Come fosse sotto esame. Sequestrati al bordo della carreggiata un appuntato mi dice abiti a torre 58? Ah sì e dov'è? La solita tattica della domanda tranello. Non ci casco. Con decisione rispondo siamo già all'interrogatorio? 
Un attimo di silenzio.
Poi ci ridà i documenti.
Cartà d'identità...
Con le dita allungate rivolte all'appuntato, patente please.
Mi guarda un secondo poi finge di darmi la patente per ritrarla subito.
Scherzetto.
L'ho colpito e risponde come un bambino dispettoso.
Va bene così.
Finalmente a casa. 
Non senza difficoltà arrivo a mettere un muro incolore davanti agli occhi, mattone dopo mattone fino a sprofondare.
Ma non è finita.
La serata delirante non sembra essere ancora terminata.
Di colpo vengo svegliato dal suono di una chitarra elettrica nella notte fonda. 
È fra.
Pensa di essere solo. 
Così prova a placare le sue inquietudini maltrattando quelle corde metalliche.
Senza dire nulla lascio terminare lo sfogo sonoro.
Poi come d'incanto apro gli occhi.
È già mattina.
Sento il rumore della pioggia.
Accendo il computer.
Ciao bello.
Da poco sono partita per...
Come nulla fosse mi alzo.
Faccio colazione con quanto disponibile nella casa.
Un nuovo giorno davanti.
Con la stanchezza di una notte allucinante.