venerdì 13 marzo 2015

Byrdman 2

Una vita allo specchio.
La caduta dal paradiso sembrerebbe quella di essere entrati nel mondo della dualità, dell'immagine riflessa, del giudizio dell'altro, il dover essere secondo il proprio ideale, gli altri, la società. Tutto ciò per nutrire la propria presunzione, hybris.
Il teatro, ma più in generale la città, il luogo labirintico, claustrofobico della mente dove si gioca il ruolo del soggetto rappresentato. Sia nella scena ma soprattutto dietro le quinte, nel camerino, al bar, per strada. È lì che la “macchina antropologica” lavora sotterraneamente nella costruzione delle parti, nell'identificazione ripetuta dei ruoli fino a incarnarli profondamente. Luogo eminente dello specchio. Sottolineato dalla presenza costante degli specchi. Sia reali nel camerino dove guardarsi, identificarsi in un ruolo, sia simbolici come il volto dell'amata o la critica, il pubblico durante la rappresentazione per sedurli con il proprio fare.
La vera battaglia non è tanto quella di convincere di essere autorevoli, di crearsi un prestigio, quanto uscire da quella macchina diabolica nel senso letterale di macchina della divisione, della scissione tra la vita e la conoscenza e della riarticolazione delle parti. I frammenti da riassemblare, mettere insieme all'infinito. Uno sforzo pari a quello di Sisifo.
Aprire una finestra verso l'ignoto l'unico modo reale di trovare la via della libertà.
Dal punto di vista formale la continuità della vita prima e dopo l'incidente, Un piano sequenza ininterrotto. Il rullo dei tamburi gli accenti emotivi a colorare la continuità. In mezzo c'è il suicidio tentato poi il sonno, il coma. Un momento di sospensione dove trovare pace, un insieme di immagini discontinue, fino a arrivare a vedere le stelle, la luce. Ma non è ancora tempo. La morte non è stata perfetta. Giù allora gettati di nuovo a incarnare una nuova “vita”. Al punto che tra il prima e il dopo lo stesso personaggio sembra irriconoscibile, direi un altro attore, sottolineato dalla tumefazione tra occhi e orecchio come una maschera nera a nasconderlo ancora come una foglia di fico.

lunedì 2 marzo 2015

Byrdman

Birdman come il nome dice è l'uomo uccello.
Suo anelito quello di volare, vincere la gravità.
Per tomshon l'aver interpretato il ruolo di super eroe a hollywood non basta più. Là si gioca ancora con la finzione, si fa cinema d'intrattenimento.
A teatro invece tutta un'altra musica.
In attesa della prima.
Il punto di collasso dove la vita reale coincide con il copione trasfigurandosi.
Teatro di vita dove si mette in scena la verità, se stessi a nudo.
E non si gioca più.
All in.
Tutta la personale reputazione, il prestigio, per non parlare del denaro, ma ancor più la propria vita sul piatto.
Si può vincere o perdere tutto.
La sfida è comunque di superare il limite.
Quel confine tra la dura verità quotidiana e i propri sogni.
Il premio il salto.
Per sanare quella schizofrenia delirante tra desiderio e realtà.
Con essa bisogna fare i conti.
Per ottenere tale risultato bisogna riuscire a far andare ogni cosa a tempo debito, controllare le proprie emozioni, gli imprevisti, le idiosincrasie degli attori presenti. La macchina teatrale come una macchina alchemica per funzionare a puntino deve essere perfetta. Ogni tassello da tutto il suo contributo fondamentale. Spendendosi fino all'ultima goccia. Una gara di resistenza a oltranza. Uno sforzo immane. Basta un comportamento automatico agito all'improvviso per far saltare tutto. Ecco allora uno scatto d'ira, di gelosia sottolineati dal rullo dei tamburi. Per evidenziare la deriva macchinica involontaria di ogni personaggio. La catena di risposte automatiche incontrollabili. Un niente per far saltare tutto. Via allora dentro il camerino o qualsiasi altro posto intimo solitario come la ringhiera di un terrazzo a un passo dal vuoto. Il luogo purificatore dove ci si ricostruisce, si trova un equilibrio precario, si mette limiti per ripartire, per superare le crisi d'identità.
In ogni caso dopo lo spettacolo niente sarà come prima.
Perché ogni volta si muore per rinascere ancora.
La speranza quella di spiccare il volo per sempre, non cadere giù di nuovo.
Si vorrebbe essere solo l'eroe invincibile con tanto di poteri.
Triste il risveglio.
Dopo aver toccato il cielo con un dito ci si sveglia nel letto di un ospedale.
Con una nuova maschera, un nuovo volto.
Un attimo per riconoscersi davanti allo specchio per una ulteriore identificazione narcisistica. Il passo necessario per ricominciare un nuovo copione, un'ulteriore storia.
L'alchimia di saltare nella nuova dimensione non ha funzionato.
Il ciclo delle incarnazioni fa il suo giro.
Basta solo averne la coscienza per spezzarlo.
Non giocare più.
Prendere il volo dalla finestra.
L'ultimo atto liberatorio.
Comunque niente di nuovo.
Già edipo, la tragedia greca avevano detto tutto al riguardo.